Di Peter Hossli Foto di Robert Huber
Le Chevrolet sono parcheggiate in perfetto ordine. Il vento agita le bandierine rosse, bianche e blu. Uno stendardo a stelle e strisce completa la scenografia patriottica di un rivenditore di auto nella città di Anderson, Indiana. A Erin Priest non occorre molto tempo per formulare un giudizio: “Le Chevy non sono verniciate con cura: una così, io non la comprerei mai”. Si sistema la giacca e passa oltre, verso le limousine Buick fresche di fabbrica, che aspettano pazientemente chi le comprerà. “Qui, invece, la qualità è ottima”. E nessuno può saperlo meglio di questa delicata signora di 74 anni, dai capelli bianchi ondulati e dagli orecchini d’oro, che per trent’anni ha lavorato per la General Motors, il colosso di Detroit, la più grande casa automobilistica Usa, un tempo la più grande del mondo. Erin si occupava della componentistica, sia per le Buick sia per le Chevrolet. Ha provato tutti i modelli dell’azienda. Cambiava macchina una volta l’anno, perché le piaceva “l’odore di nuovo” degli interni. Un capriccio olfattivo che si poteva permettere: “La General Motors pagava bene e offriva ghiotti benefit”. Oggi guida ancora una Buick, del 1997, ma ha proprio voglia di comprare un’auto nuova. Una General Motors, naturalmente. Resta fedele al marchio “per via degli sconti”, dice, “e anche perché l’azienda mi ha garantito la vecchiaia”. E non solo a lei: a una intera città nel cuore dell’America.
Ad Anderson abitano più di 10 mila pensionati. La sede locale della General Motors aveva cominciato a produrre componenti per auto attorno alla metà della Prima guerra mondiale. All’inizio degli anni Settanta, gestiva in questa città 20 stabilimenti, che davano lavoro a 23 mila operai. Finita la scuola, tutti i ragazzi venivano assunti lì. L’azienda aveva fame di lavoratori, così li attirava con buoni stipendi e, di conseguenza, buone pensioni. Prometteva una vita spensierata, insomma: un dipendente manteneva senza fatica la famiglia, anche con molti figli. Così il gigante dell’automobile ha rappresentato, per decenni, tre quarti della base economica della città. Tuttora, dopo essersi ritirato definitivamente da Anderson nel 1999, garantisce la maggior parte del reddito cittadino, attraverso l’alto numero di pensionati cui provvede, dopo anche solo trent’anni di lavoro; con un generoso assegno, ma anche accollandosi i costi sanitari.
Ora però la General Motors è allo sbando, sull’orlo della bancarotta, a causa della contrazione del mercato delle auto americane. E i 141 mila dipendenti devono produrre profitti in grado di tenere in piedi il sistema pensionistico per ben 463 mila anziani; una spesa che grava sull’azienda per sei miliardi di dollari l’anno. Anderson vive di questo denaro. E vive bene. Anche se la popolazione è andata riducendosi: da quasi 80 mila a meno di 60 mila persone. “Questa città ci appartiene, abbiamo voce in capitolo”, afferma con orgoglio Erin Priest, per poi aggiungere, con malinconia, che con la fine della sua generazione tutto cambierà: “Quando non ci saremo più noi pensionati, Anderson diventerà probabilmente una città fantasma”.
Ma per ora, Anderson vive. Gli ex dipendenti General Motors comprano auto e fanno shopping nel Mounds Mall, il centro commerciale sulla Scatterfields Road costruito un tempo per i lavoratori della fabbrica, e oggi molto meno frequentato. Tengono in piedi l’azienda locale per la fornitura di acqua e di energia elettrica. Il sabato scommettono alle corse dei cavalli. Durante la settimana giocano a carte e al bingo. Marleston Doan porta tutti i giorni la moglie Clarice alla MCL Cafeteria, specialità: sformato di patate, pollo arrosto, verdure e torte. La coppia è sposata da 65 anni; lui ha sgobbato alla General Motors per 40. “Questo posto ci ricorda i tempi passati, quando c’era ancora l’azienda”, dice Clarice Doan. Al tavolo accanto siedono tutti ex colleghi di Marleston. “Se non ci fossero i pensionati, ci toccherebbe chiudere”, dice il gestore del locale.
Tutti i lunedì pomeriggio, Elisabeth Cobble va a giocare a bowling con altri 80 anziani alla Cooper’s Bowling Alley, un locale costruito nel periodo d’oro della General Motors. Almeno 60 di loro hanno lavorato un tempo per la grande società. Il pavimento tirato a lucido risplende, i tavoli sono di un arancione acceso, i sedili sono tappezzati di rosso. Elisabeth lancia la pesante palla di materiale sintetico con molta grinta: solo due birilli restano in piedi. “La GM ha provveduto a noi in maniera ottima”, dice la donna, che ha alle spalle 38 anni da ispettrice. Frequenta il bowling “per le persone fantastiche” che ha conosciuto in fabbrica. Quando la General Motors se n’è andata, ha pianto.
Bill Pitts sta dietro al banco del Lemon Drop, una tavola calda in stile anni Cinquanta tutta nei toni del giallo limone. In questo posto, il tempo sembra essersi fermato. L’atmosfera nostalgica ricorda un quadro di Edward Hopper. Fuori lampeggia l’insegna al neon; dentro, gli sgabelli cromati risplendono nella luce gialla. La limonata fresca allo zenzero, con tantissimo ghiaccio, viene servita in bicchieri esagonali. “Ho gli stessi clienti da sempre: prima erano dipendenti, ora pensionati”, osserva Bill, che ha rilevato il Lemon Drop nel 1972. Con la crisi, il mercato statunitense era stato invaso da automobili giapponesi che si erano prese il posto delle assetate macchine “succhia benzina” americane. Alla General Motors è toccato chiudere il primo stabilimento.
Come quasi ogni giorno, Jack Williamson, 77 anni, ha parcheggiato davanti al Lemon Drop la sua Chevy Suburban, un’auto lunga e alta come un piccolo carro armato. L’energico pensionato guida nel locale un’amica dai capelli bianchi, Flo Ferguson. Si accomodano sugli sgabelli al banco e ordinano sandwich di pesce. “Jack è solo un amico, non c’è niente tra noi”, tiene a sottolineare l’ottantaduenne Flo, che per 45 anni ha fabbricato strumenti nella stessa sede di lavoro di Jack. “Siamo vedovi tutti e due e ci facciamo compagnia, nient’altro”.
Vengono qui per abitudine e perché, per loro, è un piacere rivivere i vecchi tempi. Flo è entrata alla General Motors nel 1941. L’azienda ha dato lavoro a tutta la sua famiglia: tre fratelli e tre sorelle, il padre e la madre. Lei non ha avuto figli e se ne rallegra. “Altrimenti sarebbero dovuti andare via da qui”. Perché, ad Anderson, non ci sono quasi più posti di lavoro remunerati a oltre 10 dollari all’ora. Tanto per fare il confronto: un operaio della General Motors attualmente ne guadagna 35. Un tempo, qui erano decine di migliaia i lavori ben pagati; ora i giovani si devono accontentare di un posto da McDonald’s o Wal-Mart, aziende che spesso pagano solo il salario minimo di legge, 5,15 dollari all’ora. Molto meno della pensione di Flo Ferguson. La General Motors le spedisce, ogni mese, un assegno di 1.500 dollari, cui si aggiungono i 600 della previdenza sociale statale. La cassa malattia dell’azienda sostiene i costi dell’assistenza medica e ospedaliera. Il mutuo della casa è stato saldato da molto tempo. Così vivere ad Anderson, dove un hamburger al Lemon Drop costa solo un dollaro e mezzo, è molto piacevole. E così sarà, finché ci sarà l’ultimo pensionato. Ma poi? Bill Pitts, gestore del locale, rimuove consapevolmente il problema. “Ho i capelli grigi. Quando i vecchi non ci saranno più, non ci sarò più nemmeno io”. E Anderson? “Sparirà dalle mappe”.
Le cartoline ingiallite esposte nella biblioteca cittadina raccontano di tempi migliori. I negozi si susseguivano, uno dopo l’altro, lungo l’ordinato centro cittadino in stile art déco. Auto scintillanti, tutte General Motors, gremivano le strade. I tre cinema sulla Meridian Main Street erano sempre pieni. Alla fine del turno i lavoratori andavano a rilassarsi nei bar e nelle sale da ballo della Main Street, ribattezzata “strada del whisky”. E i bambini mangiavano zucchero filato mentre le mamme provavano vestiti all’ultima moda. “Anderson era busy, busy, busy”, ricorda un’ex dipendente della General Motors, che ora ha 82 anni.
Oggi il centro è silenzioso e quasi sempre deserto. Dal gioielliere Juweliers B&B, sul velluto rosso usato per esporre giace uno strato di polvere. Nell’unico bar ancora aperto rimbomba il karaoke. La domenica al Paramount Theater, restaurato di recente, c’è solo un gruppetto di fan di concerti d’organo. Nel nuovissimo parco giochi di fronte al teatro, niente bambini. Nei parcheggi, accanto alle Chevrolet e alle Buick, stazionano alcune auto giapponesi. Con l’aria di chi si è perso, un gruppo di persone anziane percorre il centro diretto all’unico ristorante ancora aperto sulla Main Street, il Toast, una vecchia tavola calda. Molte delle lampadine dell’insegna sono bruciate.
In testa al gruppo marcia Barbara Gephardt, reginetta di bellezza di Anderson del 1944. I suoi capelli sono biondi e mossi come allora. La domenica va a colazione – uova, bacon e toast – con i vecchi amici; lei è l’unica della compagnia a non avere mai lavorato alla General Motors. “Anderson non ritornerà mai più”, osserva. Al tavolo vicino, Eugene Yates, 84 anni, si toglie gli occhiali da sole e annuisce. Per cinquant’anni, da banchiere, ha gestito e prestato denaro. Ha conosciuto i tempi belli – “era boom, boom, boom”, ricorda – e quelli brutti. La città aspetta una svolta, ma invano. È facile che chi lavora con stipendi come quelli dati da McDonald’s non riesca a pagare il mutuo, e così molti sono costretti a trasferirsi altrove. “Ci vorrebbero tante fabbriche per riempire il buco lasciato dalla General Motors”. Eugene fa una pausa. “E non arriveranno. Anderson sarà presto una città dormitorio”. Lo stesso destino minaccia tutte le città Usa con stabilimenti della grande azienda che, all’inizio dell’anno, ha annunciato di voler licenziare altri 30 mila dipendenti.
Ma c’è una persona che vede un futuro per Anderson. È il suo sindaco, Kevin Smith, repubblicano, ex poliziotto, “un uomo piccolo, grassottello e brutto”, come si autodefinisce con ironia. Lui lo sa: due anni fa è stato eletto perché aveva presentato un piano per la ripresa, il primo da vent’anni. Prometteva fabbriche, posti di lavoro nel settore dell’high-tech, la creazione di una sorta di Silicon Valley. Ci parla davanti a una vecchia segheria che stanno demolendo. “È un inizio”, dice Smith, dando il via all’operazione. “Facciamo posto alle nuove fabbriche”. Il sindaco sta cercando in tutto il mondo società disposte ad aprire una sede ad Anderson. È già stato in Israele e Giappone, e ora ha intenzione di recarsi in Cina. Agli interlocutori promette incentivi fiscali ed espone i vantaggi della città: la posizione geografica, la disponibilità di ingegneri un tempo impiegati alla General Motors, le strade recentemente asfaltate, la fibra ottica e persino le fioriere che ha fatto mettere sui ponti.
Al momento, però, tutto è fermo. Ciò nonostante, Smith si dichiara fiducioso. Solo se gli si domanda quando arriverà finalmente la ripresa, mostra un certo smarrimento. “Questo non può dirlo nessuno con certezza: la ripresa non arriva dalla sera alla mattina”. Mentre parla, guida dolcemente la sua Buick lungo la Columbus Avenue, che ha fatto riasfaltare solo l’anno scorso. La strada attraversa la zona dove un tempo si ergevano gli stabilimenti della General Motors. Parcheggia davanti a un bar tutto bianco che oggi si chiama Stanley’s, ma che ai tempi felici dell’industria automobilistica era conosciuto come White Corner ed era frequentato dagli operai. Scende dall’auto e indica 80 ettari di terreno, pronti per le costruzioni più moderne: “Ecco dove sta il futuro di Anderson”. O dove starebbe, se solo non ci fosse un fitto filo spinato a limitare l’area, contaminata dall’eredità industriale. Dove c’è terra crescono erbacce, il resto è coperto di cemento. Sotto ci sono tonnellate di sostanze chimiche e di olio, che la General Motors scaricava nel terreno. “Il proprietario dell’appezzamento è obbligato a bonificarlo”, dice il sindaco. Un compito gravoso, che l’azienda vorrà rimandare il più possibile, anche in considerazione della spaventosa perdita registrata l’anno scorso: 10,6 miliardi di dollari.
Finora la General Motors ha ammesso la propria responsabilità, e per Anderson sarebbe grave se, come prevedono alcuni analisti, fosse costretta a dichiarare bancarotta. “In questo caso la bonifica, e quindi anche la svolta cittadina, potrebbe essere posticipata di anni, se non di decenni”, ammette Smith, corrugando la fronte. Non solo: verrebbero a mancare le tasse sui terreni che la società tuttora paga. Le pensioni dei cittadini potrebbero essere decurtate, se non addirittura sospese.
Questo scenario spaventoso è ben noto alla sede della United Auto Workers, sindacato che rappresenta i metalmeccanici. L’edificio in stile Bauhaus è vicinissimo a tre stabilimenti, con alte ciminiere da cui non esce fumo da molto tempo. Le foto in bianco e nero appese alle pareti ricordano lo sciopero del 1937. Venti pensionati della General Motors si sono dati appuntamento qui per una riunione straordinaria del loro sindacato. La più anziana è anche la più agguerrita: “L’avidità e Washington ci hanno distrutti”, dice Iva Hazelbaker. Indossa con orgoglio i suoi 97 anni e la giacca a vento blu con il logo del sindacato. “Sono ancora sana, perché l’azienda mi ha impiegata in buoni lavori”, dice, ma subito si corregge: “Abbiamo dovuto lottare per ottenere ciò che abbiamo”. Iva ha lottato, per esempio, per le clausole più importanti del suo contratto, quelle che sanciscono il diritto a una rendita mensile vita natural durante del valore dell’ultimo stipendio. “Finché la riceverò starò bene”, dice, “ma starò bene solo se me la continueranno a dare”. Gli altri la ascoltano preoccupati. Tutti temono che il gigante dell’automobile tenti di farsi sospendere o almeno ridurre dal tribunale fallimentare l’obbligo di versare le pensioni. Anche se “la bancarotta non ha molto senso per la General Motors”, dice il suo portavoce John McDonald, via email. Iva non gli crede, e attribuisce la colpa di tutto ai politici, che hanno eliminato le barriere commerciali, e ai dirigenti dell’azienda, che hanno trasferito le sedi in Paesi a basso costo del lavoro. I piani del sindaco? L’anziana donna li liquida in fretta: “È un nano che si fa importante e che alza solo polvere. Le aziende dell’high-tech aprono in India, non qui ad Anderson”. Nessuno dovrebbe sorprendersi del fatto che oggi General Motors venda meno auto: “L’azienda ha tolto il lavoro ai propri clienti”.
Nella cittadina dell’Indiana, sono rimasti i pensionati e i loro figli a comprare il glorioso marchio. “Rappresentano il 90% del volume d’affari”, dice un rivenditore di Chevrolet. Bob Hoover, 83 anni, ex metalmeccanico, ha guidato più di 40 modelli, tutti GM: Pontiac e Chevrolet, Oldsmobile e Buick. Difende la loro qualità perché sa come sono fatti. Rimarrà leale, fino alla fine. “Solo quando non ci sarà più la General Motors comprerò un’auto prodotta da qualcun altro”.�