Il Garage? Sul Tetto

Con un’architettura spregiudicata ed esclusiva Annabelle Selldorf, nuova guru delle “grandi case”, sta cambiando lo sky-line di New York.

Di Peter Hossli Foto di Charly Kurz

lookat_00025887_preview.jpg«A dire il vero odio le interviste»: Annabelle Selldorf arriva in ritardo e saluta così, mentre si lascia cadere su una sedia Mies van der Rohe. «Fanno perdere tempo». Di tempo, lei non ne ha tanto: è sempre la prima a mettere piede nel suo studio di architettura a Union Square, la mattina, e l’ultima ad andarsene. Jeans a sigaretta, camicia a righine bianche e azzurre, giacca blu. È vestita così, la nuova star tra gli architetti newyorkesi.

Con il suo ultimo progetto ha suscitato scalpore: un ascensore che consente ai esidenti di un esclusivo condominio di 19 piani di arrivare in auto proprio davanti alla porta di casa. Non per modo di dire. L’edificio, pronto alla fine del 2008, si trova a Chelsea, l’ex quartiere industriale dove si alternano gallerie esclusive e appartamenti di lusso. Con un cronico problema: il parcheggio.

Un’assistente entra nell’ufficio con una tazza di caffè. Non è proprio un ufficio, quello di Annabelle, piuttosto una specie di séparé, diviso dal resto dell’open space da una libreria di volumi sull’arte europea e cinese. Alle pareti quadri moderni, sul pavimento un tappeto di sisal. L’architetto si passa una mano tra i capelli lisci, biondissimi. Ha il viso angoloso e l’espressione grave. Al polso, un Rolex d’argento.

auto.jpg«È assurdo», dice. «In città c’è sempre più gente che può permettersi un’auto, ma ci sono sempre meno parcheggi». In effetti New York non è una città a misura d’automobile, ma «chi abita in un appartamento di lusso possiede almeno un’auto, se non altro per spostarsi nella casa di campagna nel weekend».

L’edificio di Chelsea sorge in un’area dove la falda acquifera è particolarmente alta, e quindi non era possibile costruire garage sotterranei. «L’ascensore mi è sembrata la soluzione più logica», riprende Annabelle. Precisando con orgoglio che «è una novità assoluta per New York: ma l’idea non è mia, me l’ha proposta il titolare dell’impresa edile, e m’è piaciuta». Il condominio è ancora in fase embrionale, ma 12 dei 16 appartamenti sono già stati venduti, a prezzi che vanno da 6,25 a 17, 5 milioni di dollari.

Annabelle Selldorf di solito progetta do-po aver studiato in particolare il modo in cui vive la gente: «Negli ultimi tempi è in atto un controesodo, in senso urbano. La fuga dalla città non ha funzionato. In campagna è venuto meno il senso di comunità che aveva spinto molti al trasloco». E le città si sono sforzate di diventare più “a misura di famiglia”. «Oggi come sempre, una coppia cerca il luogo in cui poter allevare serenamente i propri figli», spiega l’architetto. E a New York, da qualche tempo, si vive sicuri come in campagna.

Si è sempre concentrata sulle grandi ca-se, lei. D’altronde, il suo cliente tipo possiede 50 paia di scarpe: «Come si può, quindi, pensare di non dedicare a ogni figlio, oltre a una camera da letto e un bagno proprio, anche una stanza dei giochi tutta per lui?», spiega Selldorf. «Quanto agli adulti, hanno bisogno anche di una cantina per il vino e almeno due lavastoviglie. E in bagno, oltre alla vasca e alla doccia, di spazio e superfici d’appoggio. Senza contare che, sempre più spesso, abitazione e luogo di lavoro coincidono»; non a caso, nella progettazione, Annabelle tiene sempre conto di un ufficio o di un atelier.

lookat_00025884_preview.jpgTutto questo richiede però tanto spazio. La città è un luogo adatto per abitazioni extralarge? «Lo decide il mercato. Al momento la domanda è altissima, e l’offerta ovviamente si adegua». Lei, dal canto suo, abita in un “modesto” appartamento in un edificio del 1915 nel Greenwich Village. La cucina è minusco la e della lavastoviglie ha fatto a meno per anni. «Non sono certo gli accessori che mi interessano».

Annabelle Selldorf è nata a Colonia 47 anni fa. Il padre, Herbert Selldorf, è architetto e designer d’interni. A vent’anni s’è trasferita a New York per studiare architettura, e dopo il diploma al Pratt Institute, ha continuato gli studi a Firenze. La sua prima abitazione a New York, ventisette anni fa, era un seminterrato nell’Upper Westside. Oggi Annabelle è a capo di uno studio con quaranta dipendenti che dirige «da dittatore illuminato» (parole sue). Il curriculum è ricco, variegato. Parola d’ordine: mai ripetersi, mai diventare una formula.

«Per me ogni progetto è un nuovo inizio, perché ogni cliente è diverso». Con questo principio ha creato o ristrutturato le gallerie d’arte di pezzi da novanta come David Zwirner, Barbara Gladstone, Hauser & Wirth, ha realizzato punti vendita di marchi d’abbigliamento come Abercrombie & Fitch. Ma il suo fiore all’occhiello resta la Neue Galerie di New York, un centro culturale promosso da Austria e Germania.

lookat_00025894_preview.jpgNel suo palmarès figura-no anche molte residenze per star di Hollywood, nonché gli interni degli Urban Glass House, l’ultimo progetto firmato dalla leggenda dell’architettura Philip Johnson. E da un paio d’anni Annabelle Selldorf si dedica anche al design d’arredo, che commercializza con il marchio Vica, l’azienda fondata dalla nonna. L’attività di designer d’arredamento è nata un po’ per fare di necessità virtù: dato che le capitava di non trovare il divano o il tavolo adatti all’appartamento ristrutturato, ha deciso di provvedere di persona.

Non le mancano certo proposte dall’Europa, ma lei lavora soprattutto negli Usa. «Europea nel cuore», si definisce, però le piace stare a New York, perché è una «città dura» che richiede «impegno, dedizione, un posto che accoglie tutti a braccia aperte, dove chiunque può essere se stesso senza pregiudizi».

Ciononostante, ci ha messo 10 anni a decidere se restare o andarsene. Ormai ci abita da una vita, ha «superato tutte le paure», dice. «Però potrei tornare in Europa anche domani.Magari anche in Italia, visto che parlo italiano». Negli Stati Uniti solo la cittadinan- za è ancora un problema. «Mi piacerebbe poter votare», dice, ma il suo Paese, la Germania, non ammette il doppio passa- porto, quindi non sarà mai “americana”. «Sono e resto tedesca», conclude decisa. Perché l’ha deciso lei.

Rendering: Hayes Davidson, Courtesy Youngwoo & Associates