La vera storia di Donnie Brasco raccontata da Joe P.

Da agente dell’Fbi sotto copertura, trovò le prove per mandare all’ergastolo 120 mafiosi. Ma trent’anni dopo, deve ancora girare con la scrota.

Di Peter Hossli Foto di Charly Kurz

joe_pistoneIl cellulare squilla. Sullo schermo appare “sconosciuto”.«Fatti trovare a Las Vegas tra due settimane, ti chiamerò di pomeriggio». Riattacca. Ne è passato, di tempo, da quando – era il 1976 – Joe Pistone si trasformò nel ladro di gioielli Donnie Brasco, inflitrato per i successivi sei anni tra i Bonanno, una delle cinque “famiglie” del crimine organizzato di New York. Il suo lavoro rese possibile la condanna di 120 mafiosi. Nel ’96, la sua storia divenne un film. In Donnie Brasco aveva la faccia di Johnny Depp, mentre Al Pacino interpretava il mafioso Lefty Ruggiero. La sceneggiatura era tratta dal primo libro di Pistone. Ma adesso che i documenti processuali dell’epoca sono stati desecretati l’ex agente Fbi ha deciso di completare il racconto del periodo più intenso della sua vita, in un secondo libro (Donnie Brasco: unfinished business, Running Press Book Publisher). E di parlarne.

Bally’s Hotel and Casino, Las Vegas, due settimane dopo. Squilla il telefono: “sconosciuto”. «Sei a Vegas?». «Sono al Bally’s, quando viene?». «Mai. Fatti trovare tra un’ora al South Point Casino». South Point? Il portiere del Bally’s non ha idea di dove sia. «È un albergo a venti miglia da qui, in mezzo al deserto», dice finalmente un tassista. Arriviamo poco prima delle cinque. Compare Pistone. Alto, calvo, non si toglie maI gli occhiali da sole. Ci porta in piscina. Un paio di tipi nerboruti restano nei paraggi. Sono le sue guardie del corpo. L’intervista si svolge a cielo aperto, in mezzo ai bagnanti.

joe_pistone_peter_hossliMr. Pistone, perché continua a servirsi di una copertura?
Joe Pistone: Hanno messo sulla mia testa una taglia di 500mila dollari che non è mai stata revocata. Qualche canaglia potrebbe riconoscermi e pensarci.

Nessun agente si era mai infiltrato nella mafia così in profondità. Come ci riuscì?
Pistone: Serve una disciplina mentale. Mantenendo un buon equilibrio, ho potuto restare focalizzato su quello che stavo facendo, senza cedimenti.

Perché l’Fbi scelse lei?
Pistone: Avevo appena passato un anno e mezzo sotto copertura e non avevo combinato casini. Sono cresciuto in un vecchio quartiere italiano dominato dalla mafia. Sapevo quindi come atteggiarmi. Conoscevo la parlata, il modo di camminare. Ma ero consapevole in ogni istante che si trattava di lavoro.

Da giovane i gangster devono averla affascinata, eppure invece di unirsi a loro è diventato uno sbirro. Perché?
Pistone: I miei genitori fecero di tutto perché io capissi che fare il criminale non era una buona idea.

E perché la mafia è caduta nella sua trappola?
Pistone: Perché sono stato me stesso. Non fingevo di essere un “tipo mafioso”. Inoltre, ho avuto molta pazienza. Sono riuscito a coltivare quei tipi, a far credere loro che ero Donnie, il ladro di gioielli. Bisogna conoscere la loro lingua e il proprio carattere. Bisogna sapere come gestiscono la loro organizzazione e cos’è che li fa infuriare. E conoscevo le pietre preziose, i sistemi d’allarme. Ero capace di entrare negli edifici e aprire le casseforti. Sapevo come farli guadagnare. Ho iniziato frequentando vari locali, prima a Mulberry Street, Little Italy, e a Manhattan. Poi a Brooklyn. Alla fine qualcuno si è avvicinato.

Gli offrì dei diamanti?
Pistone: È stata una cosa molto lenta. Pensavano di essere loro a coltivare me, mentre ero io che me li stavo coltivando. Ho dovuto superare i loro pregiudizi, uno alla volta. Una sera, dopo otto mesi che mi cucinavo questo tipo, ho tirato fuori dei diamanti, e gli ho detto: “Pensi di riuscire a venderli?”. Erano diamanti veri, confiscati dal governo.

Rischiava di essere ucciso. Come si convive con la paura?
Pistone: La fede aiuta. Prima o poi moriremo tutti. Devi solo fidarti della tua fede e credere che non sia arrivato il momento. Sembra complicato ma in realtà non lo è. Una volta, mi trovavo nel retro di un locale e un tipo mi fa: “Se non ci convinci di essere davvero un ladro di gioielli ti ritroveranno avvolto in un tappeto”. Ho dovuto tirarmi fuori a chiacchiere, senza lasciar trapelare ansia o nervosismo. In un’altra occasione, un tipo mi accusò di aver rubato alla “famiglia” dei proventi della droga. Per stabilire se era vero, fecero delle riunioni. Se in quei casi ti fai prendere dal panico, ti portano a “fare un giro”. Io rimasi nei paraggi aspettando che finissero. Tutto qui. Non c’è molto altro da fare.

Lei viveva a Manhattan e ogni tanto andava a vedere sua moglie e le sue tre bambine nel New Jersey. Era facile rientrare nei panni di Joe Pistone?
Pistone: Vedevo la mia famiglia solo una volta ogni cinque o sei mesi, per uno o due giorni, quindi non c’era bisogno di cambiare vita. E non avendo mai smesso di essere la persona che sono, non ho avuto problemi. Gli agenti sotto copertura finiscono nei guai quando modificano la loro personalità. Stando via per mesi il mio ruolo si era ridimensionato, certo. Quando tornavo e credevo di essere ancora il capofamiglia, scoprivo che non lo ero più. Ma ero convinto di agire in nome di una società migliore, per un Paese migliore, sapevo che alla fine le mie figlie avrebbero avuto un beneficio da quello che facevo. Era l’unico modo possibile di vedere le cose.

Come è riuscito a non perdere sua moglie?
Pistone: Mentre ero sotto copertura non le sono mai davvero sfuggito. Il nostro legame non si è spezzato. E sapeva che credevo in ciò che facevo. Le figlie, certo, erano piccole e me ne volevano perché non ero mai a casa. Le ho protette, loro e la madre, trasferendoci tutti più volte. E ancora oggi le tengo lontane da qualsiasi apparizione in pubblico.

Perché non ha scelto di essere uno spacciatore, o un ladro di automobili, invece di un ladro di gioielli?
Pistone: Ho scelto un lavoro che non fosse troppo violento e che si potesse fare da solo. E poi, se dici di essere un ladro di automobili ne devi rubare una al giorno, mentre un ladro di gioielli può fare un colpo al mese. Per quel che li riguardava guadagnavo bene, riuscivo a portare diamanti e gemme preziose. E se volevano entrare da qualche parte, me la cavavo con le serrature e sapevo evitare gli allarmi.

Quanta “irresponsabilità penale” le è stata concessa?
Pistone: Non potevo commettere reati violenti né intromettermi nella pianificazione dei colpi. Ma in realtà c’erano reati che potevo commettere, come i furti. Devo dire che comunque non c’è nessuna emozione. Da poliziotto, rubare non rientra ovviamente nella mia natura. Ma ci sono cose che sono disposto a fare, se quello è l’unico modo di ottenere le prove per mandare dei criminali in galera.

Come è riuscito a evitare di uccidere?
Pistone: È stata dura. Mi hanno commissionato degli omicidi. Ma per fortuna, quelli che avrei dovuto uccidere sapevano di essere ricercati e non si facevano trovare.

Lei ha assistito a parecchi omicidi. Ha mai provato ad aiutare qualcuno? Ha provato pena per le vittime?
Pistone: I mafiosi si uccidono tra di loro, non uccidono normali cittadini. E inoltre erano vittime consapevoli della situazione in cui si erano trovate. Purtroppo.
L’Fbi la fece rientrare quando stava per diventare “uomo d’onore”. Ci avrebbe tenuto?
Pistone: Certo. Mi mancavano solo un paio di mesi. Pensa all’imbarazzo della mafia che scopre di aver ammesso tra le proprie fila un agente dell’Fbi. Interrompere l’operazione tre mesi prima che diventassi un affiliato è stato ridicolo. Ma era in corso una lotta all’interno della “famiglia”, stavano uccidendo troppe persone. E avrei dovuto essere ucciso anch’io.

In quei sei anni, si è fatto degli amici?
Pistone: Vedere delle persone sette giorni a settimana senza che si crei una sorta di amicizia è impossibile. Ma bisogna essere consapevoli che è strettamente legata all’ambiente in cui ti trovi. Se tu non lavorassi sotto copertura, non saresti loro amico. Io poi dovevo ricordarmi di avere a che fare con criminali che si uccidono tra di loro. Uccidono i loro migliori amici. Comunque, sono stato anche testimone al matrimonio di Benjamin Lefty Ruggiero. E quando me lo chiese, pensai che ero sulla strada giusta. Era un segno di fiducia.

Oltre a Lefty, divenne amico di Sonny Black Napolitano. Dopo, Lefty finì in carcere e Napolitano venne ucciso per aver garantito per lei. Ha provato qualche rimorso?
Pistone: Dovevo raccogliere delle prove e mandarli dentro. Quella vita se la sono scelta loro. Se fai il criminale finisci in galera, o ammazzato. Lefty, parlando con i suoi avvocati, ha espresso un odio assoluto verso di me. Sonny Black invece disse alla fidanzata: “Donnie è stato più bravo di tutti noi. Stava facendo il suo lavoro. E non ci ha mai spinti a compiere un reato”.

C’era una sorta di rispetto. E lei, prova rispetto per loro?
Pistone: Fanno ciò in cui credono. Quando hanno scoperto che ero un agente sotto copertura sono rimasti coerenti. Sonny è morto da uomo. Avrebbe potuto diventare un informatore, ma non lo ha fatto. Lefty stava per farsi ammazzare. L’Fbi lo ha tirato fuori per un pelo. Poi, ha passato 15 anni in galera senza dire una parola. È uscito solo perché stava morendo di tumore. Se fosse diventato un informatore avrebbe avuto una sentenza più mite, ma non l’ha fatto. E per questo lo rispetto.

Quanto è vicina alla mafia vera la descrizione che ne fanno cinema e televisione?
Pistone: La mafia non è così romantica. Non tutti i mafiosi citano Aristotele e Socrate… Sono ladri, rapinatori, assassini. Non desiderano assolutamente avere un lavoro come si deve: vogliono guadagnare denaro illegalmente e pretendono il rispetto per il fatto di essere parte di un’organizzazione segreta. Ho scritto il primo libro proprio per sfatare il mito della mafia, l’idea che i suoi affiliati siano tipi romantici, intoccabili. Volevo mostrare a tutti che l’Fbi è capace di infiltrarsi tra di loro e sbattere in galera i capi, non soltanto i pesci piccoli. Il pubblico americano in qualche modo si era innamorato della mafia. Ecco, penso di aver semplicemente dimostrato che i mafiosi finiscono in galera, come chiunque altro.

Quando lei ha testimoniato, il suo volto è stato visto da tutti. Che protezione ha avuto, in seguito?
Pistone: Sono rimasto nell’Fbi fino al ’96 e quello è un ambiente piuttosto sicuro. Adesso ho spesso con me tre o quattro tipi. Come Donnie Brasco mi sono conquistato il rispetto degli altri poliziotti e, quando ritengo di aver bisogno di qualcuno, trovo sempre persone disposte ad accompagnarmi.

C’è chi dice che il suo lavoro abbia distrutto la mafia italiana negli Stati Uniti. Corretto?
Pistone: Sradicare la criminalità organizzata non è possibile. Ma l’abbiamo neutralizzata. All’epoca la mafia dettava le regole dell’economia americana. Aveva un controllo assoluto su tutti i sindacati più importanti. Riuscivano anche a controllare i politici e i giudici, a farli eleggere. Noi, mettendo in galera i vertici, abbiamo tolto quel potere alla mafia.

Le loro tattiche sono cambiate?
Pistone: I mafiosi di un tempo controllavano il mercato della droga ma la smistavano all’ingrosso, tenendola fuori dai loro quartieri. Oggi invece spacciano ovunque. E i più giovani non solo entrano nel giro dello spaccio, ma fanno anche uso di droga. Non provano quel sentimento tradizionale di rispetto nei confronti della “società” come accadeva un tempo.

E tutto ciò si ripercuote nel lavoro dei nuovi Donnie Brasco?
Pistone: Non ci sarà mai un altro Donnie Brasco. Oggi si lavora ancora sotto copertura, ma non esiste più quella dedizione. I ragazzi hanno quasi sempre una società attraverso la quale hanno contatti con la mafia. Io sono diventato uno di loro. Non staccavo mai. Non ero coinvolto soltanto nelle attività illegali, ma anche nella loro vita sociale. Oggi nessuno ha una dedizione simile. La maggior parte dei tipi sotto copertura va a cena fuori con i mafiosi una volta ogni tanto, ma non ci vive 24 ore su 24 come ho fatto io.

Torna mai a Mulberry Street?
Pistone: Ogni tanto, insieme a un paio di ragazzi. E quando lo faccio la gente mi riconosce. Pochi mesi fa un tipo se n’è uscito sbraitando: “Donnie, che cazzo ci fai qui? Non hai già fatto abbastanza danni?”. Gli ho risposto: “Ovviamente no, visto che non ti ho messo dentro”. Si ricordano, si ricordano….

L’Fbi le ha dato una medaglia e 500 dollari per sei anni di vita. Ne valeva la pena?
Pistone: Sì. Non l’ho fatto per denaro, o per una medaglia. Ma perché era il mio lavoro. Credevo in quel che facevo. La soddisfazione viene dal sapere di aver fatto qualcosa di buono per la società e il mio Paese. A me basta.

(traduzione di Marzia Porta)