Il posto delle bombe

Siamo entrati nella fabbrica in Oklahoma che sforna a pieno regime gli ordigni convenzionali destinati all'attacco a Baghdad. Qui dal 1943 la produzione per conto del governo degli Usa non si è mai fermata. E oggi mille patriottici dipendenti stanno facendo gli straordinari.

Di Peter Hossli Foto Robert Huber

Carol rimuove delicatamente con un pennello alcune tracce infinitesimali di esplosivo dalla superficie color verde oliva della bomba, pulisce il coperchio del tubo d’innesco con un panno pulito e con una spinta fa rotolare l’ordigno verso la collega, che lo chiude con quattro viti.

Ecco fatto, la bomba è pronta. Carol è una dei 1000 dipendenti del McAlester Army Ammunition Plant (McAAP), e va fiera del suo lavoro. Dal settembre del 1943 tutti o quasi gli ordigni non nucleari destinati alle forze armate statunitensi vengono prodotti in questo impianto industriale dell’Oklahoma, tre ore d’auto da Dallas. Provenivano tutte da qui le bombe con cui gli americani hanno raso al suolo il Vietnam, convinto Saddam Hussein a ritirarsi dal Kuwait nel 1991 e, l’anno scorso, costretto i talebani a lasciare Kabul.

La sera Carol torna a casa soddisfatta. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle ha lasciato il suo posto di infermiera in ospedale e si è fatta assumere alla fabbrica di bombe. “Per aiutare il mio Paese”, dice. Già: “Può sembrare paradossale: prima curavo la gente e adesso fabbrico ordigni di morte. In realtà”, e indica la Mk 84 che ha appena terminato di assemblare, “questa bomba salva più vite di quante ne annienti. È una garanzia di pace”. Carol (“il cognome preferisco non dirlo”) conosce bene il suo mestiere, perché al McAAP ci aveva già lavorato alla fine degli anni ’60. Anche allora si produceva a pieno ritmo, 6 mila bombe al giorno destinate al sud-est asiatico. Con l’avvento della guerra fredda l’attività dell’impianto si era drasticamente ridimensionata e la produzione era scesa al di sotto delle 6 mila unità l’anno, per poi riprendere di colpo alla fine del 2001.

Adesso, infatti, il venerdì e il sabato si fanno i doppi turni: sull’Afghanistan gli americani hanno sganciato 21 mila bombe, ritmi che fanno prosciugare le scorte in un attimo. Dunque al McAAP sono in molti a sperare nella guerra contro l’Iraq. “Attaccheremo a febbraio”, dichiara convinto Mark Hughes, un massiccio quanto pacato ex-marine che cura le pubbliche relazioni dell’azienda. Alla domanda se la fabbrica abbia aumentato la produzione risponde che “all’unico fornitore di un prodotto molto richiesto il lavoro non manca”. Per il resto la discrezione è d’obbligo. Per anni la fabbrica di bombe è stata off limits per la stampa; il primo a consentire l’accesso ai giornalisti è stato il colonnello Jyuji Hewitt, dal 2001 comandante della struttura. “Ci tenevo a far sapere che anche noi, qui, contribuiamo alla difesa del nostro Paese”. Porte aperte ai mezzi d’informazione, dunque, ma entro il perimetro del McAAP ci si muove solo con la scorta; vietato fotografare gli edifici e annotarne numero e ubicazione; impossibile conoscere il numero e il tipo di ordigni prodotti.

Assistere alla produzione si può, ma solo in determinate fasi; le porte della “cucina”, per esempio (il reparto dove si cuociono, si fondono e si incapsulano esplosivi quali Tnt e Pbx), restano chiuse. Per sessant’anni l’impianto è rimasto segreto. L’opinione pubblica ne ignorava l’esistenza, e nemmeno le massime cariche dello Stato l’hanno mai visitato. All’indomani del proditorio attacco giapponese a Pearl Harbor del 1941 il Congresso decise di creare una struttura ad hoc per la produzione di bombe convenzionali e la scelta cadde su McAlester, ex-cittadina carbonifera in posizione strategica quanto a collegamenti con il resto del Paese ma, al contempo, fuori dalla portata di eventuali attacchi navali. Nel giro di 18 mesi vennero costruiti oltre 2800 edifici, 2200 dei quali sono magazzini-bunker per lo stoccaggio delle munizioni. Oltre che centro di produzione, infatti, il McAAP è un deposito di Classe Uno, una struttura militare di primaria importanza. In caso di necessità deve essere in grado di rifornire le truppe per un mese, con 400 container di munizioni al giorno. Nel suo arsenale c’è di tutto, dalle granate corazzate da 20 millimetri alle bombe Penetrator da 25 tonnellate che hanno distrutto i rifugi sotterranei dei talebani.

Secondo la stima di Brian Lott, direttore delle vendite, il valore complessivo della merce a magazzino dovrebbe aggirarsi sui 7 miliardi di dollari. Riguardo alla voce secondo cui la vasta gamma di prodotti McAAP comprenderebbe anche testate nucleari, il pr dell’azienda dichiara di non poterla “né confermare, né smentire”. Non sono ancora le 6 di mattina. È buio e fa freddo. Una carovana di mezzi pesanti abbandona la Highway 69, l’autostrada che collega Dallas a McAlester, e svolta a destra a cinquanta metri dal cancello d’ingresso del McAAP difeso da una barriera di cemento ad altezza d’uomo. Due guardie di sicurezza ispezionano meticolosamente ogni veicolo – frugano nel vano portaoggetti, controllano il fondo con uno specchio. Oltre il cancello inizia il complesso del McAAP, 233 chilometri quadrati di impianti e abitazioni sotto il diretto controllo dell’esercito. Le schiere interminabili di edifici anonimi, case e bunker tutti indistinguibilmente grigi, ciascuno con la sua rampa d’accesso in cemento, evocano i kolkoz del socialismo reale.

Al check point 14, un paio di chilometri a ovest dell’ingresso, c’è il secondo controllo. Fiammiferi e accendini vanno depositati in un apposito contenitore di latta – oltre questo punto sorgono gli stabilimenti per la lavorazione degli esplosivi. Gli operai indossano scarpe antiscossa con la punta di piombo, occhiali protettivi e aderenti cuffiette beige (basta una ciocca elettrica per accendere gli esplosivi più sensibili).

James lavora qui da tre mesi. Al momento è assegnato al reparto di catramatura dei bossoli grezzi. Un carrellista preleva una coppia di bombe dal vagoncino merci e la deposita sul cavalletto di legno di fronte a James, che lubrifica rapido la cavità metallica dove verrà collocato l’innesco. Dice di ritenersi fortunato: “Questo è un lavoro molto ambito”. Soprattutto per via dell’ottima paga. I neo-assunti guadagnano 11,22 dollari l’ora e con qualche anno d’anzianità non si fatica ad arrivare a 25 – il triplo rispetto alla media locale. Le ferie sono lunghe e in più, adesso, c’è l’indennità straordinaria per il turno extra del venerdì e del sabato. James, che come molti altri è stato assunto in occasione della recente impennata produttiva del McAAP, ci tiene a fabbricare bombe, “purché di ottima qualità”, spiega, “perché i nostri ragazzi, laggiù, si meritano il meglio”. Le bombe made in Usa sono realizzate a mano; se si eccettua il trasporto, non c’è niente di automatizzato al McAAP.

Dalla lubrificazione alla pulizia, dal fissaggio delle viti alla cottura degli esplosivi passando per la verniciatura e l’avvolgimento delle spolette di accensione, tutto viene eseguito a mano con amore artigianale. James afferra la bomba a due mani e la appende a un grosso gancio d’acciaio fissato a un nastro trasportatore. L’enorme mortadella metallica scompare dietro l’angolo dove l’aspetta Debbie, l’addetta alla pesatura. Il guscio metallico è grande il doppio di lei e pesa almeno 10 volte tanto, 530 chili per l’esattezza, stando alla cifra riportata dalla bilancia di precisione. La successiva ne pesa 524. Dalla tara dipende la quantità di Tnt o Pbx che andrà a “farcire” l’ordigno; prima, però, c’è quello che Steve definisce “il compito più ingrato”: rivestire l’interno del guscio di catrame. Sono tre anni che lavora qui, Steve, e non se ne lamenta. Anzi. Le sue parole suonano surreali quanto quelle dei suoi colleghi: “Almeno so che quel che faccio ha uno scopo”, dice, e intanto toglie con una spatola il catrame bollente dall’avvolgimento di una bomba. “Dopo l’11 settembre sono cambiate molte cose”, prosegue. “Adesso serviamo la libertà”. Anche l’atteggiamento all’interno della fabbrica è mutato, si lavora con più attenzione. Steve adora il turno nel reparto esplosivi e dispositivi d’accensione, perché “lì sì, che capisci davvero come funziona una bomba”. Non ha paura degli incidenti? “No. Basta fare attenzione. Molta attenzione”.

Un piccolo monumento, idillicamente collocato sulla riva di un laghetto artificiale, commemora i caduti sul lavoro – 25, sino a oggi. Lo scorso anno un operaio è morto schiacciato sotto una tonnellata d’acciaio, ma l’incidente più grave risale al 1944, quando un’esplosione provocò 12 vittime. Da settimane Steve fabbrica esclusivamente bombe Mk 84 – il passe-partout dell’arsenale americano, un ordigno buono per tutte le stagioni. Nel solo 1991, durante la guerra del Golfo, ne sono state sganciate 12 mila. Su circa 1000 chili di peso solo 250 sono di effettiva carica esplosiva, ma l’effetto dirompente è immenso, anche grazie alle migliaia di schegge di metallo contenute al loro interno che, al momento dell’esplosione, vengono scagliate in ogni direzione. Costo di produzione: 3500 dollari, di cui 1000 per il guscio e 2500 tra esplosivo e lavorazione.

A questa cifra base, però, vanno aggiunti almeno altri 30 mila dollari per il sistema di navigazione – quello che tutti, qui, chiamano il “cervello laser” e che serve a trasformare la Mk 84 in una bomba intelligente, in grado di colpire il bersaglio a colpo sicuro. O quasi. La cifra non è da poco, “ma sono soldi ben spesi”, visto che un ordigno di questo tipo riveste un’enorme importanza strategica in caso di conflitto: così, almeno, sosteneva lo scorso ottobre il ministro della Difesa Donald Rumsfeld. L’idea è di limitare, proprio grazie alla Mk 84 e al suo sistema di puntamento laser, l’impiego di truppe di terra e ridurre, così, le potenziali perdite umane. “Le bombe sono l’ideale per distruggere obiettivi nemici senza mettere a repentaglio la vita dei nostri soldati”, conferma il colonnello Hewitt, uno dei pochi dipendenti del McAAP in uniforme.

Quanto ai sistemi di navigazione, che hanno fatto il loro esordio durante la guerra del Golfo, non sono prodotti qui, ci pensa la Boeing. “Noi ci limitiamo a fare la parte che fa “bum””, dice con un ghigno ingenuo Hewitt. Alle nove il McAAP si ferma. Coffee break. I fumatori si stringono in uno stanzino antincendio. Tutti bevono caffè slavato in grossi contenitori di polistirolo. È il momento per fare due chiacchiere. Cosa pensano della guerra all’Iraq? La discussione parte in sordina ma acquista rapidamente vivacità. “Io sono a favore.

Così almeno il resto del mondo scoprirà dove si trova McAlester, e a cosa serviamo”, esordisce un operaio. “Saremo noi a fare la differenza”, incalza un altro. “Qui a McAlester non siamo guerrafondai”, puntualizza James. “Però l’11 settembre ci ha aperto gli occhi: si tratta solo di portare a termine un’opera che abbiamo lasciato a metà, togliere di mezzo Saddam”. “Clinton era perso dietro ad altre cose”, commenta uno seccamente. “La tragedia delle torri gemelle è anche colpa sua”. James si dichiara orgoglioso di come è andata la guerra in Afghanistan, e del ruolo decisivo svolto dalle bombe targate McAAP: “Non dico che sia giusto uccidere i propri simili, ma quei bastardi se la sono cercata”. Un fischio acuto segna la fine della pausa. La fabbrica appartiene per il 100% al governo americano, che ha sempre l’ultima parola riguardo a qualunque decisione interna. “Qui non facciamo politica”, taglia corto il colonnello Hewitt. Il Pentagono ordina, e il McAAP esegue. “Dopo la guerra in Afghanistan, è vero però che ci sentiamo di andarcene in giro un po’ più a testa alta”, osserva il colonnello, e mi mostra la foto di un marine che trascina una bomba McAAP verso un cacciabombardiere durante il recente conflitto afgano. Le bombe sono prodotti a lunga conservazione che non richiedono manutenzione particolare. Basta stoccarle al fresco in igloo sotterranei e controllarle ogni 3-7 anni.

Un problema maggiore è costituito dagli stabilimenti: tutt’intorno al loro perimetro sono piantate 300 barre di ferro alte 20 metri, che fungono da parafulmine. In caso di tornado o anche solo di temporale violento la catena di montaggio si blocca automaticamente e il personale cerca riparo negli appositi rifugi. Tutti gli edifici che ospitano materiale esplosivo sono provvisti di scivoli per l’evacuazione, ma se dovesse verificarsi un incidente, nessuno avrebbe il tempo di fuggire. All’esterno, in fila indiana, aspettano i camion che dovranno portare le bombe verso altri depositi, basi aeree e porti. Il via vai dei carichi, di questi tempi, è impressionante. Dale Covington, primo cittadino di McAlester, non sembra preoccupato. Anzi. “Senza la fabbrica di munizioni non esisteremmo neppure”. Dietro la sua scrivania è appeso il dipinto a olio di un cowboy che cavalca attraverso la prateria. “Il mondo si ricorda di noi solo in caso di guerra”, aggiunge sulla difensiva, come se avessimo messo in dubbio la reputazione della città. “Ma non c’è niente di male nel farsi conoscere, no?”.

No, certo che no. Ma molto dipende dai motivi per cui si diventa famosi. Lo scorso anno, per esempio, McAlester ha fatto registrare il record Usa di condanne capitali. Ne hanno eseguite più che in Texas. “Beh sì, preferisco che il mondo ci conosca per la produzione di armi che per l’attività del boia locale”, puntualizza il sindaco, perfettamente in tono con il personale della fabbrica. Senza contare che, mentre il resto del Paese langue, la città si gode un inatteso boom economico. Si sono smorzate persino le proteste contro le assordanti detonazioni degli ordigni fallati che venivano fatti brillare. All’ora di pranzo.